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Foto iconiche e falsi: la realtà e la fotografia

La fotografia non ha niente a che fare con la realtà

Dicevamo qualche tempo fa che i rapporti tra le cose reali e le cose nelle foto sono tutt’altro che semplici e, nonostante le apparenze, fotografare non significa necessariamente dire le cose come stanno.
“La fotografia non ha niente a che fare con la realtà” diceva un grande maestro, e in un certo senso è vero, ma andiamo per gradi.
Fotografare ha questa base necessaria di realtà: davanti al soggetto vero ti ci devi per forza mettere, il tuo sensore ha bisogno delle cose vere per costruire la mappa di pixel che genera il file, quindi (al netto delle recenti tecnologie AI che complicano il discorso, per cui per ora le lasciamo fuori) la realtà è un ingrediente imprescindibile. Quello che hai davanti è quello che resterà nella fotografia, perciò se vuoi una foto dei fiori, ti devi mettere davanti ai fiori, se vuoi il gatto, devi stare davanti al gatto (e riuscire a farlo star fermo quel tanto che basta), se vuoi una foto del Re, devi necessariamente stare davanti al Re.
Però poi succede che col soggetto ti ci rapporti, in qualche modo ti tocca.
La cosa che mi ha sempre colpito è che volente o nolente, che ci sia o meno una vibrazione interiore, quello che restituisce una fotografia è sempre e comunque il risultato di questo incontro col soggetto. Non si scappa: io fotografo il mondo, ma poi le mie immagini non sono più quel mondo, ci sono dentro anch’io, che stia scattando le semplici foto delle vacanze o le grandi foto iconiche che finiscono nelle riviste.
Quindi la faccenda si complica un po’, perché dalla sua nascita la fotografia ha avuto questo solenne compito di “rappresentare la realtà” così com’è, ma probabilmente il suo incarico le è stato stretto fin da principio.

Fammi bella con Photoshop

“Fammi bella con photoshop” è una delle frasi ricorrenti di oggi quando si fa un ritratto, ma già con la chimica in camera oscura, da sempre, il pezzetto di mondo che sta sul negativo viene tagliato, alterato, corretto, contrastato, ricolorato e chi più ne ha più ne metta.
Ma non è solo una questione di “ritocco”, è qualcosa che ha a che fare con la sensibilità, col punto di vista e con l’intenzione.
Il semplice fatto di scegliere l’inquadratura, tagliar fuori un pezzo o metterne dentro un altro, decidere un contrasto o un colore, si traduce in un’alterazione di quello che sta lì davanti. Due fotografi difronte allo stesso scenario produrranno sempre due fotografie diverse (cit.).
Nonostante questo, esiste un atavico tabù a proposito del ritocco, più o meno demonizzato a fasi alterne nel tempo. Certe volte sembra che ritoccare o elaborare una fotografia sia percepito come una specie di tradimento, come se l’immagine restituita debba per forza attenersi alla sua matrice reale il più assolutamente possibile. Pena la perdita di credibilità.
Vale per tutti e anche alcune delle immagini iconiche più famose non sono sfuggite a questa pratica e alle relative critiche.
Avviene insomma che fotografie leggendarie come Migrant Mother di Dorothea Lange o Sharbat Gula di McCurry o persino l’immagine del disastro del dirigibile Hindenburg, sono tutte state tacciate di ritocco, di manipolazione o di alterazione della forma o del contenuto, suscitando più o meno sorpresa o sdegno a seconda dell’inquisitore di turno.
Per non parlare di The falling soldier di Capa, che addirittura è accusata di essere stata inscenata ad hoc.
In tempi più recenti, i fotoreporter Steve Winter e Adnan Hajj elaborano digitalmente le immagini dei loro reportage rispettivamente su Mumbai il primo e sulla guerra in Iraq il secondo, al fine di enfatizzare temi e reazioni emotive, suscitando preoccupazioni riguardo l’etica nella fotografia naturalistica e la manipolazione delle notizie.

Foto iconiche.
Dorothea Lange, Migrand Mother - 1936
Foto iconiche.
Hindenburg Disaster - 1937
Ci dobbiamo fidare

Il dedalo è piuttosto intricato, ad addentrarcisi non sembrerebbe facile uscirne indenni e la riflessione che nasce riguarda ogni immagine e, per estensione, ogni linguaggio.
Osserviamo le fotografie che in qualche modo ci risuonano dentro e noi stessi, a qualsiasi livello, risuoniamo quando scattiamo una fotografia o quando, più in generale, parliamo di qualcosa. Quanto l’argomento trattato ci sta a cuore determina quanto il racconto di esso diventa vibrante e quanto siamo capaci di trasmettere questa vibrazione, anche attraverso le scelte che operiamo per articolarlo. Tagli, contrasti, ritocchi, colori, messe in scena, tutto è funzionale al racconto.
Un bravo fotografo resta fedele a ciò che sta dicendo con le sue immagini: una fototessera ha un suo specifico compito e un fine, come un ritratto, una campagna di moda, un paesaggio o un reportage.
Non esiste scritto, fotografia o dipinto che non contenga il suo autore ed è da lui che dipende la credibilità dell’opera. È l’autore che ci racconta cosa aveva davanti e lo fa a modo suo, di lui (o lei) ci dobbiamo fidare. Scattare una foto non è un atto meccanico, è una faccenda “umanistica”, in qualche modo una responsabilità. Qualcuno guarderà l’immagine e ne trarrà delle conclusioni e quanta più fiducia avrà in chi l’ha scattata, tanto più prenderà per buono il messaggio.
La fotografia non ha niente a che fare con la realtà, ma non dipende dalla fotografia se un’immagine è credibile o meno, se dice o non dice la verità.
La realtà, comunque, è altra cosa.

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